Più difficile che mai.
Cominciamo col dire che la critica cinematografica statunitense è stata molto severa col film esordio di McGregor regista, dopo l’uscita del film ed ancor prima quando la sceneggiatura di John Romano era già in mano alle case produttrici indipendenti Lakeshore e Lionsgate. Incerte sulla scelta del regista, avevano alla fine accettato la candidatura dell’attore scozzese, anche per la direzione del film di cui era già il protagonista designato da tempo.
Le molte aspettative dovute al successo planetario del romanzo erano poco inclini a tollerare errori. Molto probabili, in una storia sicuramente difficile e, per giunta, messa nelle mani inesperte di un neo regista. Soprattutto perché il progetto della riduzione del romanzo in film risaliva al 2003, quando la Lakeshore Entertainment – che con la Lionsgate ha poi prodotto il nostro film 12 anni dopo – ne aveva proposto la direzione a Phillip Noyce. La genesi dell’opera cinematografica è stata dunque molto complessa e sofferta.
Ewan McGregor accetta la sfida anche se alcuni suoi detrattori provvedono a divulgare la notizia che il neo direttore ha accettato l’incarico conoscendo solo la sceneggiatura. E senza aver mai letto direttamente il romanzo di Roth.
Vera o falsa, questa affermazione non ha, a mio parere, penalizzato in modo significativo il risultato finale. E la dichiarazione dello stesso autore del romanzo, già citata nella recensione del film, lo conferma appieno.
Un diverso approccio
Tutte le premesse descritte fino a questo punto mi inducono a tentare un approccio diverso dal solito. Vorrei fingere di non sapere lo stretto legame che unisce il film al romanzo di Roth, ed esprimere le mie sensazioni dopo la visione del film come se lo stesso fosse il risultato di una sceneggiatura originale.
Quando ho visto in Febbraio 2016 per la prima volta il film sullo ‘Svedese di Newark’ ho spento il monitor del mio PC con in mente, vivide più che mai, le sensazioni e le emozioni che lo schermo aveva suscitato in me.
Pur percependo una profonda amarezza al mio interno ero consapevole di aver assistito ad una storia umana, anzi a più storie umane, rilevanti e decisamente ben raccontate. Mi rendevo conto in quel momento che la visione del film era riuscita ad aggiungere un’altro tassello di non poco conto al panorama di esperienze dirette od osservate che hanno costellato la mia esistenza di tre quarti di secolo.
Nella sua crudezza la storia di Merry Levov e della sua famiglia, non era una storia come tante proposta dalla fantasia di un autore. Era, purtroppo, lo spaccato di una vita vera, vissuta e dolorosamente sostenuta, da esseri umani autentici. Che ne hanno portato tutto il peso, sopportato tutte le contraddizioni, goduto delle scarse gioie, e cercato di tenere la testa diritta di fronte alle più imprevedibili sofferenze.
Il lavoro cinematografico di Ewan McGregor mi ha offerto questa esperienza. Che mi ha arricchito e mi ha fatto riflettere. Non so se qualcuno la definirà una storia buia o una storia a lieto fine – l’ultima immagine dello schermo consente anche un minimo spiraglio verso questa speranza – ma sento che ha scavato una traccia nella mia coscienza, una traccia che prima non c’era.
Conseguenze
Mi ritorna in mente in quest’occasione il noto aforisma di Giuseppe Giusti, che per me, giovane lettore poco più che adolescente, rappresentava un riferimento. “Il fare un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente.” E penso che questo film, anche indipendentemente dal romanzo che lo ha ispirato, appartenga a questa categoria.
Il film mi è piaciuto, ne raccomando la visione, meglio ancora se può trasformarsi in oggetto di riflessione e discussione insieme ad amici, conoscenti o parenti. E lo stesso discorso posso applicarlo al romanzo.
Ma in questo secondo caso c’è in gioco qualcosa di diverso. All’immediatezza delle immagini che sono la forza del film si sostituisce la potenza delle parole. Parole usate con arte sapiente, che scavano, scoperchiano, mettono a nudo e rivelano le parti più segrete di ciascuno di noi. Parole che solo l’abilità di un grande scrittore sa dosare e miscelare creando nel lettore sentimenti contrastanti che inevitabilmente finiscono per coinvolgere, appassionare, scuotere, entusiasmare o turbare.
Philip Roth è uno di questi maestri della parola. La cosa che più mi ha sorpreso è una dote che credevo fosse ormai scomparsa. Cioè quella di affascinare lettori molto diversi, distanti per stile di vita, per età e estrazione sociale. Ho ritrovato nel romanzo di Roth la stessa forza ed attrazione dei romanzi russi della mia adolescenza. Con una grande differenza. So che oggi, al tramonto della mia lunga vita non potrei trovare lo stesso fascino di un tempo nella rilettura di un “Delitto e castigo”. Mentre mi sono sentito inevitabilmente incollato alla storia di Seymour Levov fino all’ultima parola. Ma la vera sorpresa è che ciò sia accaduto anche alla mia nipote ventiduenne tanto diversa da me in esperienza, età ed interessi.
Il bilancio
Pastorale Americana, il libro, non può lasciare indifferenti. Quando arrivato all’ultima pagina, mi sono soffermato ansioso di conoscerne l’epilogo, ho scoperto l’ennesima sorpresa.
L’ultima frase del capitolo nono, quasi al termine delle oltre 400 pagine del romanzo dice così: “Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?” Giro la pagina per sapere la risposta e scopro che il romanzo è finito.
Non ci sono dubbi. E’ finito davvero! Rimango perplesso per qualche istante, e poi mi rassegno rendendomi conto che non poteva essere altrimenti.
C’è un commento alla fine del libro che penso attribuibile a Vincenzo Mantovani il bravissimo traduttore. Lo voglio trascrivere qui perché sento che rispecchia anche il mio stato d’animo.
“…Pastorale americana non si esaurisce nell’allegoria politica; è un libro sulla vecchiaia, sulla memoria, sull’intollerabilità di certi ricordi. Lo scrittore Nathan Zuckerman, fin dall’adolescenza affascinato dalla vincente solarità dello Svedese, sente la necessità di narrarne la caduta. E ciò che racconta è il rovesciamento della pastorale americana: un grottesco Giudizio Universale in cui i Levov, e i lettori, assistono al crollo dell’utopia dei giusti, al trionfo della rabbia cieca e innata dell’America.”
E’ proprio questo. Non trascurate cari amici di trarre da questa storia una personale riflessione sulla vita. Io credo che il vissuto di un essere umano anche nelle sue espressioni più dolorose può essere portatrice di stimoli positivi.
La visione del film ve li può offrire in meno di due ore. Se avete un po’ di pazienza in più, se vi piace la lettura, affidatevi alle pagine del libro e lasciatevi trasportare nella vita dello Svedese. E aggiungerete alla vostra personale visione dell’esistenza qualcosa che vi farà sicuramente riflettere in un modo a cui forse non eravate ancora abituati,
Una storia, due modi di raccontare, tanti interrogativi esistenziali. Il film raggiunge il suo scopo. Il libro lo illumina ulteriormente!
Vedi anche:
“PASTORALE AMERICANA” di Philip Roth – il libro
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