L’enorme successo letterario del libro di Umberto Eco attira l’interesse del regista francese Jean-Jacques Annaud. Sta preparandosi a girare il film “L’Orso” e comincia a leggere il libro. Al termine della lettura delle prime cento pagine decide di farne un film a tutti i costi. Ne acquisisce i diritti e sospende la realizzazione del film in corso. Il film uscirà nelle sale nel 1986 dopo cinque anni di lavoro senza sosta. Circa 130 minuti di film che diventano una delle icone della cinematografia mondiale.
La vicenda in cui ci si immerge attraverso la visione del film è quasi una storia a sé. Che trae spunto dalla narrazione del romanzo ma che poi la rilettura da parte del regista e la sua fantasia creativa, nonché la capacità interpretativa degli attori trasformano in una opera che ha vita propria. La letteratura e il cinema appartengono a due mondi diversi. Lo scrittore nel proprio racconto descrive i fatti ma consente al lettore molteplici visioni possibili dei protagonisti e delle ambientazioni. Il regista deve essere più dettagliato e preciso. Non gli sono concessi spazi di manovra. Deve portare lo spettatore all’interno della vicenda facendogliela vivere in un modo solo. Nel modo in cui il regista stesso l’ha immaginata.
La regia di J. J. Annaud
Il versione cinematografica colpisce gli spettatori in modo molto più diretto e senza molte possibilità di interpretazioni. Annaud ci fa vivere la tragedia che si dipana fra le mura dell’austera abbazia esattamente come lui la percepisce. Ed in questo caso restituisce ad ogni spettatore la sua visione di luoghi, volti, dialoghi, che inevitabilmente finiranno per essere, per lo spettatore cinematografico, “la storia” in immagini del Nome della Rosa come vissuta dai testimoni diretti.
Servendosi con maestria dei potenti mezzi espressivi propri della “settima arte” il regista francese ci conduce per mano sul sentiero che ha egli stesso tracciato per il suo pubblico. E così, durante la visione del film, con lui sosteniamo la causa dei buoni ed odiamo le perfidie dei cattivi. Apprezziamo la sagacia e la cultura di Guglielmo e palpitiamo insieme al giovanissimo Adso mentre nella penombra di una tetra cucina illuminata dalla sola fiamma del focolare scopre le delizie dell’amore profano fra le braccia della fanciulla. Ci muoviamo furtivi e curiosi nei misteriosi meandri del labirinto della biblioteca della torre. Un labirinto che risulta talmente articolato e complesso che, anche lo spettatore più fantasioso, avrebbe avuto molte difficoltà ad immaginare. Mentre, grazie al film semplicemente si materializza davanti ai nostri occhi. Parteggiamo perché il colpevole venga trovato e consegnata alla giustizia.
L’abilità della regia rende la storia narrata attraverso il film, particolarmente coinvolgente; a tratti sofferta, talvolta divertente. Estremamente umana e incredibilmente realistica. I volti dei personaggi appartengono al nostro quotidiano, e così gli ambienti e le situazioni in cui si muovono. Niente di patinato che trasformi la tragedia in favola! Si respira il mistero, il terrore, le ansie, il sudore, il sangue. Tanto sangue, forse troppo! Ma si percepisce anche l’innocenza, la semplicità, il sentimento, l’amore. La superstizione e la fede. L’eterna lotta fra il bene ed il male.
Una curiosità
Frate Guglielmo ha il volto dell’attore scozzese Sean Connery. In precedenza per ben nove anni (dal 1962 al 1971) Connery entra nell’immaginario collettivo degli spettatori di tutto il mondo come il mitico James Bond, l’agente 007 protagonista indiscusso di ben sei film di spionaggio tratto dai romanzi di Jan Fleming. Lo stesso Annaud, per questo motivo, quasi esclude a priori la candidatura di Sean per il ruolo di Guglielmo. Troppo identificato con il precedente personaggio, inverosimile nel ruolo del frate francescano, così distante e diverso! Il regista dispone di molte altre candidature con nomi di grande livello. Ma nessuna di queste lo convince completamente. E infine la a parte del monaco francescano viene affidata a Connery che saprà trasformarsi in quel Guglielmo superlativo che tutti abbiamo potuto apprezzare.
Due chicche finali
La colonna sonora di James Horner. Suggestiva, intrigante: splendida!
E infine la personale chiusura di questa magistrale opera cinematografica attraverso la quale il regista mette in bocca, al non più giovane Adso, una vena di nostalgia facendogli pronunciare queste ultime parole: – “Ma ora che sono molto, molto vecchio, mi rendo conto che di tutti i volti che dal passato mi tornano alla mente, più chiaro di tutti vedo quello della fanciulla. Che ha visitato tante volte i miei sogni di adulto e di vegliardo. Eppure, dell’unico amore terreno della mia vita, non avevo saputo, né seppi mai… il nome.”
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