Con la recensione del romanzo L’isola dei fiori rossi di Alan Brennert, mi sento spinto a fare una cosa mai fatta prima. E cioè, parlarvene subito!
Ho ormai superato le 150 recensioni di libri e film pubblicate su questo blog. E ho da pochi minuti letto l’epilogo di questo straordinario romanzo.
E sono proprio le sensazioni che mi lasciano in cuore questa storia che mi impongono di parlarne prima che vengano attenuate e forse… travolte, da un’altra interessante lettura.
L’isola dei fiori rossi (Moloka’i nel testo originale inglese) è un romanzo del 2003, la cui traduzione in italiano arriva molto più tardi.
Quando in una delle quotidiane ‘offerte lampo’ di Amazon più recenti (era il 18 dicembre 2020) vedo il romanzo e ne scopro il soggetto, lo acquisto inserendolo fra i libri da leggere al più presto. Ed ecco qua!
Il soggetto
“1890. La piccola Rachel Kalama vive a Honolulu e fa parte di una grande famiglia hawaiana. Desidera vedere le terre lontane che suo padre, un marinaio mercantile, spesso visita. Ma all’età di sette anni i sogni di Rachel si infrangono: la comparsa di alcune macchie rosate sulla sua pelle indica che ha contratto la lebbra.
Portata via da casa e dalla sua famiglia, viene mandata in quarantena sull’isola di Moloka‘i, dove si trova il lebbrosario e dove la sua vita sarebbe destinata a finire.
E invece, sebbene costellata di ostacoli e prove difficili da superare, la comunità che si è creata è ricca di personaggi straordinari: c’è tanta vita anche tra i più disperati ed è un miracolo scoprire che la speranza e l’amore fioriscono nei luoghi più desolati.
Un romanzo meraviglioso ispirato alla vera storia dell’isola di Moloka‘i, alle Hawaii, dove per cento anni è stato deportato chiunque avesse manifestato i primi segni della lebbra. Ricco di personaggi pronti a saltare fuori dalla pagina, L’isola dei fiori rossi è la meravigliosa e straziante avventura di tutti coloro che hanno deciso di abbracciare la vita pur essendo stati condannati. Un racconto che, con il calore, l’umorismo e la compassione che porta con sé, ha già incantato e commosso oltre mezzo milione di lettori.”
Accattivante e abile sinossi, quella che avete appena letto, o sincera descrizione di un pregevole romanzo?
Mi sono lasciato ancora una volta tentare, ed adesso vi racconto le mie impressioni.
Le prime righe
L’isola dei fiori rossi si presenta così.
“Parte prima. La volta azzurra del cielo
Capitolo uno
1891
Tempo dopo, quando a sostenerla non sarebbero rimasti che i ricordi, lei li avrebbe custoditi gelosamente, uno a uno. La vecchia Honolulu. Com’era allora. Come non sarebbe stata mai più. Agli occhi del forestiero, doveva sembrare un giardino lussureggiante e rigoglioso di stravaganti ibridi: il palazzo in stile fiorentino all’ombra dei baniani e degli alberi della pioggia; i negozi in legno che si affacciavano sulle strade polverose come nel Far West; i campanili delle chiese in stile New England che svettavano in tutta la loro altezza sui boschetti di palme e alberi da cocco. Agli occhi del forestiero, doveva sembrare esotica, e allo stesso tempo familiare. Per Rachel, cinque anni, era un parco giochi. Ed era casa.
Non sapeva spiegarsi il perché, ma alcuni ricordi si stagliavano nella memoria con contorni più nitidi di altri: il peso e la consistenza di una moneta hapa’umi da cinque centesimi nella tasca; il gusto della limonata tahitiana fredda in una giornata rovente; lo stormire delle fronde delle palme di Waikiki che, mentre lei e i fratelli giocavano tra le risaie e le peschiere, stridevano sopra le loro teste come cavallette. Ricordava bene quella volta che si era tuffata negli ampi canali del parco Kapfolani, spaventando a morte la madre. Riusciva ancora a percepire il fondale coperto di muschio e le pietre che scivolavano sotto i suoi piedi. E non aveva dimenticato neanche le corse in tram, su e giù per King Street insieme alla sorella – pigiate in mezzo a passeggeri carichi di ogni genere di mercanzia, dai calamari ai maiali, dai polli al bucato della lavanderia cinese.
Ricordava anche i muli
e i cavalli che defecavano senza alcun ritegno trascinandosi dietro la vettura. Alla vista degli escrementi, più lunghi del suo braccio, Rachel strabuzzava gli occhi. E, non appena il tram li schiacciava sotto le ruote, scoppiava a ridere.
Ma ciò che ricordava meglio in assoluto era il “giorno del piroscafo”. Perché era il giorno in cui suo padre tornava a casa.
«È oggi il giorno del piroscafo?»
«No», rispose la madre, passandole una radice di taro appena cotta. «Tieni. Sbucciala».
Rachel rimosse rapidamente la soffice buccia lilla, facendo attenzione a non ammaccare la radice, e guardò la madre, fiduciosa. «È domani, il giorno del piroscafo?», ritentò.
Dorothy Kalama, che già di regola aveva un’aria severa, lanciò alla figlia un’occhiata esasperata. «Come faccio a saperlo? Pensi che me ne stia di guardia a Koko Head?». E con un pestello di pietra prese a schiacciare una fetta di taro già pelata fino a ridurla a un impasto liscio e sodo. «Prima che arrivi potrebbe passare anche un’altra settimana», disse alzando le spalle.
«Eh no, mamma». Esattamente cinque settimane prima avevano ricevuto dalle Samoa una lettera di papà. Li informava che di lì a un mese si sarebbe messo in viaggio verso casa. E Rachel sapeva bene che la traversata non durava mai più di sette giorni.
«Dalle Samoa a Honolulu sono quattrocentosessantacinque chilometri», dichiarò con orgoglio.
La madre la guardò scettica. «Tu lo sai quant’è lungo un chilometro?».
La bambina ci pensò su un attimo, il viso tondo e paffuto improvvisamente serio. Poi allargò le braccia il più possibile. Dorothy rise, ma, ancor prima che potesse replicare, da fuori arrivò un baccano di bambini che urlavano.
«Ti odio! Vattene!».
«Vattene tul».
I fratelli di Rachel, Benjamin e James (per tutti Rimo, tranne che per mamma […]”
L’ispirazione de L’isola dei fiori rossi
Il romanzo termina con una ‘Nota dell’autore’.
Dopo una prima annotazione storica, Alan Brennert scrive:
“Un romanzo è per definizione un’opera di fantasia. Il mio è ambientato in un luogo reale dove vissero e morirono persone altrettanto reali. E, volendo narrare una vicenda che rispecchiasse le loro storie di vita, mi sono sentito investito di una grande responsabilità nei loro confronti.
Nel libro ho cercato di sfumare i confini tra i fatti e la finzione, intrecciando le storie dei malati reali e di coloro che li assistevano quotidianamente con quelle del mio cast di personaggi immaginari. Ma ora credo valga la pena ridisegnare rapidamente quei confini, per poter rendere onore ad alcune tra le persone che con le loro vite hanno ispirato e arricchito il libro. […]
Alcuni personaggi del libro sono basati su persone realmente vissute. […]”
L’isola dei fiori rossi non è quindi un normale romanzo dettato dalla fantasia dell’autore ma è in realtà una sorta di biografia romanzata che a partire dal 1891 racconta la vita di Rachel Kalama fino al 1970.
Una lunga e difficile vita, di un personaggio fittizio, ma che rappresenta la storia reale di tante donne hawaiane che vennero contagiate dalla lebbra. Prive di difese immunitarie subirono le peggiori conseguenze della malattia. Molte trovarono la morte in pochi anni. Alcune, poche, ebbero la sorte di Rachel e sopravvissero nonostante il tragico morbo.
Ma parlare di ‘sopravvivenza’ è sbagliato e fortemente riduttivo. Poiché, in verità, l’eroina del romanzo attraversò la terribile sorte che la vita le aveva riservato con coraggio, forza e dignità.
Rachel
La grande sofferenza, alimentata da un amore per la vita e verso le persone, diventa una spinta propulsiva capace di imprese inimmaginabili.
Attraverso la lettura del romanzo, che non può e non vuole nascondere verità tremende, scopriremo cose inaspettate. Conosceremo Rachel ed altri personaggi che la paura del contagio ha scelto di imprigionare fino alla morte nell’isola di Moloka’i. Assisteremo ai loro tormenti fisici, psicologici e morali a cui la malattia e le persone li hanno condannati.
Ma scopriremo che molti di essi, benché isolati dalla società civile quali scorie umane da eliminare senza far rumore, scelgono di combattere il loro triste destino. Cercando e trovando in se stessi la forza interiore per un ben diverso percorso… positivo… generoso… solidale e pieno di speranza.
E possono anche – benché sembri impossibile mentre i corpi si distruggono – riscoprire la gioia di vivere e di amare ben oltre ogni umana previsione o speranza.
Per Rachel, la nostra piccola vittima, l’incontro con il terribile destino avviene molto presto.
L’incontro con la tragedia
“[…] Il giorno della partenza, moglie e figli accompagnarono papà al porto a bordo del traballante carro di famiglia – Rachel seduta davanti in braccio a mamma; Ben, Rimo e Sarah dietro. Papà assicurò il mezzo all’Esplanade. E, facendosi coraggio, i figli si avviarono con lui verso il piroscafo Mariposa, composti e determinati a non piangere.
Dal molo proprio davanti a loro si levava però un orribile lamento carico d’angoscia. Come se qualcuno volesse dar voce ai pensieri e al dolore che i piccoli faticavano tanto a tenere a bada. A gemere non era una persona in particolare. Il lamento era corale. A tratti il pianto si smorzava, per poi ricominciare subito dopo. Si alzava e calava come il vento. Non era un semplice piagnucolio, ma una parola precisa. Henry e Dorothy lo sapevano bene. Quella gente diceva auwè. In hawaiano, “ahimè.” Auiuè! Auwwayyl (Ahimè! Ahimè!).
Il mugolio assomigliava in tutto e per tutto al lamento funebre che Rachel aveva sentito il giorno in cui il re era tornato in patria. «Mamma, è morta anche la regina?», chiese, timorosa.
«No, bambina, no», rispose Dorothy.
Al largo del molo dieci era ormeggiato il Mokoli’i, un vaporetto fatiscente utilizzato per i collegamenti tra le isole. Accalcata dietro una barriera di legno, una folla sconvolta mormorava un mesto canto funebre. Nel frattempo una colonna di persone veniva scortata dalla polizia sulla vecchia imbarcazione utilizzata per il trasporto del bestiame. C’erano uomini e donne, vecchi e giovani. Per lo più cinesi e hawaiani. Di tanto in tanto da dietro la transenna c’era chi allungava un braccio per toccare coloro che salivano a bordo: un uomo cercava di aggrapparsi a una donna; un bambino di toccare la madre; qualcuno provava a stringere la mano di un amico per l’ultima volta.
«Afai pàkè», disse Kimo a bassa voce.
«Cosa?», chiese Rachel.
«Lebbrosi, stupidotta», la rimbrottò Sarah. «Vanno a Moloka’i».
«Cos’è un lebbroso?».
Tra la folla qualcuno lanciò in acqua una ghirlanda di lei. Ma, a dispetto della leggenda, era improbabile che quei viaggiatori tornassero a mettere piede a Honolulu.
«Sono malati, piccola. Molto malati», spiegò mamma. Rachel non capiva. Non sembrava che quelle persone stessero poi così male. Non erano molto diverse da quelle che stavano dalla parte opposta della barricata.
«Ma, se sono malati, perché nessuno li cura?», chiese Rachel.
La domanda rimase senza risposta. E quel termine, “lebbroso”, restò sospeso nell’aria umida. Mamma prese la bambina per le spalle e la fece voltare dall’altra parte.
«Avanti. Via di qui! Tutti!». Ed Henry e Dorothy guidarono i figli lontano dal molo, lontano dalla sventurata processione diretta a bordo del lurido vaporetto, lontano dalla folla che piangeva quei malcapitati come se fossero già morti. Ma la famiglia non riuscì a sfuggire al lamento della calca. E quel coro mesto continuò a perseguitarla come un fantasma piagnucoloso fino alla Mariposa.
Auwèl Auwwayy! Ahimè, Ahimè… […]”
Lebbrosa…
“[…] lasciando Rachel completamente nuda.
I dottori girarono lentamente attorno alla bambina, indicando la piaga increspata sulla coscia e le avvisaglie di una seconda ulcera sul piede. Poi con degli strumenti metallici picchiettarono alcune zone del suo corpo. Sembrava che ai loro occhi Rachel non fosse una bimba di sei anni, ma una enorme coltura brulicante di bacillus leprae che aveva assunto sembianze umane.
Rachel restò lì per venti lunghissimi minuti, paonazza di vergogna, finché a un tratto i medici uscirono, soddisfatti. A quel punto l’infermiera le infilò di nuovo il camice e sentenziò: «Ecco fatto! Non è stato poi così drammatico, vero?».
Sorrise e aprì la porta.
Rachel schizzò in corridoio come un proiettile. Sentì la donna che la chiamava per nome. Ma la cosa ebbe il solo effetto di farle accelerare il passo. Le lacrime le annebbiarono la vista. Scorgeva a mala pena il punto in cui metteva i piedi, ma non le importava nulla. Rovesciò un carrello, facendo finire in mille pezzi dei flaconi di vetro. Non si fermò. Svoltò l’angolo, attraversò un altro corridoio, schivando due medici che la fissarono, confusi.
Poi girò di nuovo e finì dritta contro una donna con un camice. Tra le lacrime intravide la sua faccia butterata grondante di pus e lanciò un urlo. Durante quella rocambolesca fuga andò a sbattere contro una bambina. Anche il suo viso sembrava una ferita aperta. Rachel gridò di nuovo. E la sua voce riecheggiò per l’intero edificio.
All’improvviso l’infermiera la afferrò. Rachel lottò con tutte le sue forze, colpendo la donna con i suoi piccoli pugni. Poi sentì qualcuno gridare: «Rachel!».
Era Henry. L’infermiera la lasciò andare e il padre la prese in braccio. «Sono qui. Sono qui», disse, tenendola stretta. E le urla si trasformarono in singhiozzi.
L’uomo si sentì
spezzare il cuore: Rachel tremava come una foglia. «Che diavolo le avete fatto?», sbottò, lanciando uno sguardo di fuoco all’infermiera.
«Niente! I medici l’hanno solo visitata. Tutto qui…».
«Voglio tornare a casa», lo implorò Rachel. «Ti prego, papà, portami a casa…».
«Rachel… Rachel, ascoltami. Ascolta papà», ripose lui, addolcendo il tono. La prese per le spalle e la costrinse a guardarlo negli occhi. E la bambina si calmò. «Sei malata, piccola. Noi vogliamo che tu stia meglio. E l’unico modo per stare meglio è rimanere qui».
«Ma io voglio tornare a casa!».
«Lo so, lo so. E ci tornerai… ci tornerai. Quando starai meglio», le disse ripetendosi che era ancora possibile, che poteva davvero andare così. «Ma adesso devi essere coraggiosa e restare qui per un po’. Capisci? Mamma e io verremo a trovarti tutti i giorni. Te lo prometto, okay?».
Come accadeva sempre quando papà era con lei, Rachel si tranquillizzò e annuì lentamente. Henry sorrise. «Brava bambina! E adesso vai con questa signora. Papà verrà a trovarti domani, d’accordo?». E la abbracciò.
La piccola fu condotta in un reparto destinato ai pazienti in isolamento. Le dissero che avrebbe passato lì la notte. Rachel tirò un sospiro di sollievo: una stanza tutta per lei, nessun mostro in vista. Riconoscente, indossò il pigiama e si trascinò a letto, cercando il punto più comodo sul pagliericcio bitorzoluto. L’infermiera uscì e lei rimase sola. Per la prima volta in vita sua. E la cosa non le piacque.
Poco dopo un’altra infermiera venne a portarle la cena: pesce essiccato, riso alla creola, poi e, per dessert, torta al cioccolato. Rachel mangiò per prima cosa il dolce. Dopo passò al poi, al riso e infine al pesce. Quando fuori il sole tramontò, si rifugiò nel sonno. […]”
Il libro
Del romanzo L’isola dei fiori rossi vi ho solo tratteggiato pochi paragrafi.
Ma la stupenda bellezza del romanzo di Alan Brennert potrete apprezzarla leggendo tutte le 475 pagine dell’edizione cartacea pubblicata il 5 marzo 2020 dalla Newton Compton Editori. Ventidue capitoli raccolti in quattro parti dai titoli suggestivi come l’isola hawaiana a cui il romanzo si ispira.
Ottimamente tradotta dall’inglese da Emanuela Alfieri, il racconto e molti dialoghi riprendono spesso anche termini hawaiani che rendono la narrazione ancora più verosimile.
Termini molto noti quali ‘Aloha’ (saluto amorevole, gentile) e ‘Wahine’ (donne) e molti altri che mi sono risultati completamente sconosciuti (‘Ohana” famiglia, e moltissimi altri.)
Il romanzo originale Moloka’i ha venduto circa 600 mila copie e sul sito di Amazon ha ricevuto ben 2409 recensioni (72% 5 stelle e 20% 4 stelle.)
Al termine della sinossi dell’edizione in lingua inglese un commento di poche righe ne sancisce la serietà ed accuratezza del lavoro storico e della profonda bellezza del romanzo.
Ho ritenuto utile sottoporvene il contenuto.
” Fedele ai resoconti storici, Moloka’i è la storia di uno straordinario dramma umano, la cui portata e il cui pathos non sono mai stati raccontati prima nella finzione. Ma la vita di Rachel, sebbene oscurata da malattie, isolamento e tragedia, è anche piena di gioia, coraggio e dignità. Questa è una storia sulla vita, non sulla morte; speranza, non disperazione. Non si tratta delle mancanze della carne, ma della forza dello spirito umano.”
Dopo aver letto il romanzo non posso far altro che condividere queste parole.
Alan Brennert – lo scrittore
Non lo conoscevo prima, della lettura de L’isola dei fiori rossi ma dopo questo bel romanzo credo che leggerò anche altro scritto da lui. Ma la sua vera specialità è la fumettistica e per darvi notizie più ampie sulla sua biografia ed il suo lavoro ecco i due link di Wikipedia a lui dedicati (italiano e inglese).
Non voglio però dimenticare di segnalare che recentemente è stato pubblicato (solo in lingua inglese per ora) il suo nuovo romanzo Daughter of Moloka’i. Doveroso sequel del primo romanzo.
Dicono del nuovo libro:
“La figlia di Moloka’i ( Daughter of Moloka’i) espande la relazione di 22 anni di Ruth e Rachel, solo accennata in Moloka’i. È una storia ricca di emozioni di due donne – diverse per certi versi, simili per altri – che non si sarebbero mai aspettate di incontrarsi, tanto meno che si sarebbero amate.
E per Ruth è una storia di scoperte, lo svolgersi di un passato di cui non sapeva nulla. Raccontato in una prosa vivida ed evocativa che evoca la bellezza e la storia delle culture hawaiana e giapponese, è il racconto potente e toccante che i lettori di Moloka’i aspettavano da quindici anni.”
Anche in questo caso 755 lettori-recensori esprimono consensi estremamente favorevoli. Lo aspetto in italiano quanto prima!
Per chi desidera approfondire od acquistare
- L’isola dei fiori rossi – Il libro di oggi
- Honolulu (solo in lingua inglese) – L’altro successo hawaiano di Alan Brennert.
- Video Youtube dal titolo: Visiting Hawaii’s Tragic & Remote Leprosy Colony – Kalaupapa un luogo meraviglioso che rappresenta un periodo oscuro della storia Hawaiana (in inglese con sottotitoli)
4. Video Youtube dal titolo: “Haloa ‘Oe” (Farewell to Thee) Ukulele Play Along! Un canto di benvenuto in lingua Hawaiana e inglese. Splendide voce, volto e interpretazione per un canto che affascina e coinvolge. Lo spirito esotico di quelle terre.
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