Ho deciso di proporvi la recensione di Ogni mattina a Jenin della scrittrice Susan Abulhawa per una ragione fondamentale. Quando, qualche giorno fa, ho chiuso il libro al termine della lettura e mi sono fermato a riflettere su questa storia così profonda e particolare, mi sono detto.
Ecco uno di quegli scritti ai quali si riferiva Giuseppe Giusti affermando: “Il fare un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente.”
E fra questa gente ho considerato anche me stesso.
La storia narrata in Ogni mattina a Jenin attraversa un lungo periodo: dal 1941 al 2002. Un tempo che potrebbe corrispondere ad una intera vita. Io sono nato nel 1942 e quindi potrebbe corrispondere alla quasi totalità della mia stessa vita.
Degli avvenimenti trattati dal romanzo ho sentito spesso echi, che nel corso di decenni sono arrivati anche a coloro che, come me, hanno sempre letto i fatti di Palestina con distacco.
Ed ecco che invece la storia di Susan Abulhawa li ripropone nella loro cruda e toccante umanità.
L’autrice
Copio integralmente dalla copertina del romanzo questa sintetica biografia.
“Susan Abulhawa, cittadina americana, nasce da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni e vive i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme. In seguito abita in diversi paesi, tra cui anche il Kuwait e la Giordania. Si laurea in scienze biomediche all’Università della South Carolina ed ebbe una brillante carriera nell’ambito delle scienze mediche.
Susan Abulhawa è autrice di numerosi saggi sull’argomento, per cui è stata insignita nel 2003 del premio Edna Andrade, relatrice a diversi convegni e attivista in ambito umanitario, ha fondato l’associazione Playgrounds for Palestine, che si occupa soprattutto dei bambini dei Territori Occupati. Vive in Pennsylvania.
I suoi articoli sulla situazione palestinese sono apparsi su numerose riviste, tra le quali «New York Daily News», «Chicago Tribune», «Christian Science Monitor» e «Philadelphia Inquirer». Nel 2006 Sperling & Kupfer pubblica il suo romanzo Nel segno di David, nel 2011 esce per Feltrinelli Ogni mattina a Jenin, e nel 2015 Nel blu tra il cielo e il mare, sempre per Feltrinelli.
Il contenuto del libro
Eccovi la sinossi di Ogni mattina a Jenin ripresa dal sito di Amazon.
“Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l’abbandono della casa dei suoi antenati di ‘Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin.
Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese.
E, in parallelo, ripercorriamo la storia di Amal: l’infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore.
La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro.
In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta.
L’autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.”
Dal ‘Preludio’ che apre il romanzo
“Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte.
Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell’uccisione “accidentale” di una cittadina americana. O se la sua vita sarebbe semplicemente finita nel marasma del “danno collaterale”. Una solitaria goccia di sudore scese lungo il volto del soldato.
L’uomo batté le palpebre, più volte. Lo sguardo fisso di Amal lo metteva a disagio. Aveva già ucciso altre volte, ma mai guardando la vittima negli occhi. Amal lo capì, e avvertì la sua inquietudine in mezzo alla carneficina che li circondava. Che strano, pensò di nuovo, non ho paura di morire. Forse perché sapeva, dal modo in cui il soldato aveva battuto le palpebre, che si sarebbe salvata.
Chiuse gli occhi, rinata, il metallo freddo ancora contro la fronte. I ricordi la riportarono indietro, e ancora indietro, a una patria che non aveva mai conosciuto.”
Il romanzo vero e proprio comincia a partire da questo punto.
Ogni mattina a Jenin
Il romanzo ‘Morning in Jenin’ che può essere considerato il suo romanzo di esordio viene pubblicato nel 2006 sotto il titolo ‘The Scar of David’.
Ripubblicato col nuovo titolo ‘Morning in Jenin’ (in lingua inglese) da Bloomsbury nel 2010, viene poi tradotto in arabo e in almeno due dozzine di altre lingue diventando un bestseller internazionale.
Per il nostro paese diventa un volume di 400 pagine per conto di Feltrinelli fin dal 2011 con la ottima traduzione di Silvia Rota Sperti.
Per alcuni paesi europei la pubblicazione di Ogni mattina a Jenin solleva polemiche e contrasti.
In Francia lo scrittore e filosofo Bernard-Henry Levy definisce il romanzo ‘Un concentrato di cliché anti-israeliani ed anti-ebraici mascherati da fiction.’
Susan Abulhawa respinge le accuse di Levy definendolo ‘pop star francese di filosofia ed elitismo’ ed accusandolo di insulti.
E di usare il termine ‘antisemitismo’ come uno schiaffo per screditare qualsiasi ritratto negativo di Israele. Ed aggiunge:
“Il signor Levy ci accusa di demonizzare Israele, quando in realtà tutto ciò che facciamo è tirare indietro il sipario, per quanto leggermente, per mostrare una verità oscura che desidera nascondere. Sospetto che il signor Levy si senta, come fa la maggior parte dei sostenitori ebrei di Israele di avere più diritto alle fattorie di mio nonno di quanto ne abbia io.
Dopotutto, questa è davvero la base di Israele, non è vero?”
La Filmworks Dubai ha acquistato i diritti per trasformare il romanzo Ogni mattina a Jenin in un film.
Commenta Anna Soler-Pont capo dell’Agenzia che ne ha rilevato i diritti: ‘Sarà sicuramente un progetto speciale. Non esistono ancora film epici sulla Palestina.’
Ma proseguiamo con qualche brano iniziale del romanzo.
Capitolo Uno – La raccolta -1941
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole.
Era ancora buio, solo i bambini dormivano, mentre gli abitanti di ‘Ain Hod si preparavano alla salat del mattino, la prima delle cinque preghiere giornaliere. La luna pendeva bassa come una fibbia che legasse cielo e terra, una scheggia timorosa di farsi piena. Gambe e braccia si tendevano, l’acqua lavava via il sonno, occhi speranzosi si aprivano. Il udu’, l’abluzione rituale prima della salat, spandeva il mormorio della shahada nella foschia del mattino sottoforma di centinaia di sussurri che proclamavano l’unicità di Dio e rendevano onore al suo Profeta. Quel giorno si pregava all’aperto e con particolare riverenza perché iniziava la raccolta delle olive. Per un’occasione tanto importante, era meglio salire sulle colline rocciose con la coscienza purificata.
E così, accompagnati da un’orchestra mattutina di piccole creature, grilli e uccellini in fermento – e presto anche galli –, gli abitanti del villaggio proiettavano ombre di luna sui loro tappetini da preghiera. La maggior parte chiedeva solo perdono per i propri peccati, alcuni compivano una rak‘a in più. In un modo o nell’altro, ciascuno diceva: “Mio Signore Iddio, che oggi sia fatta la Tua volontà. A Te la mia sottomissione e la mia gratitudine” e poi si incamminava verso ovest in direzione degli oliveti, alzando bene i piedi per evitare le spine dei fichi d’India.
…proseguendo…
Ogni novembre, la settimana della raccolta riportava a ‘Ain Hod una ventata di vitalità e Yehya, Abu Hassan, se la sentiva fin dentro le ossa. Uscì di casa di buon’ora insieme ai bambini, che aveva convinto con la sua annuale speranza di arrivare prima dei vicini. Ma anche i vicini avevano gli stessi propositi e la raccolta iniziava sempre attorno alle cinque di mattina.
Yehya si girò timidamente verso sua moglie, Bassima, che aveva la cesta con le coperte e le tele cerate in equilibrio sulla testa, e mormorò: “Umm Hassan, l’anno prossimo dobbiamo alzarci prima di loro. Voglio arrivare un’ora prima di Salim, quel vecchio balordo sdentato. Solo un’ora prima”.
Bassima alzò gli occhi al cielo. Suo marito faceva la stessa geniale pensata ogni anno.
Mentre l’oscurità del cielo si arrendeva alla luce, i rumori della raccolta di quel nobile frutto si alzavano dalle colline sbiancate dal sole di Palestina: i colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle vecchie tele incerate e sulle coperte stese sotto agli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano le ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro.
Yehya si fermò per massaggiarsi il collo dolente. È quasi mezzogiorno, pensò, vedendo che il sole era vicino allo zenit. Madido di sudore, stava in piedi sulla sua terra, un uomo robusto con in testa una kefiah bianca e nera e l’orlo della veste infilato nella fascia che gli cingeva la vita alla maniera dei fellahin. Osservò lo splendore che lo circondava. L’erba verde muschio scendeva a cascata dalle colline, sulle rocce, attorno e sopra agli alberi. […]”
Capitolo Due – Ari Perlstein – 1941
“Ari aspettava vicino alla Porta di Damasco, dove i due ragazzi si erano conosciuti quattro anni prima. Era figlio di un professore universitario tedesco che era fuggito presto dal nazismo e si era stabilito a Gerusalemme, dove la sua famiglia aveva preso in affitto una piccola casa di proprietà di un ricco palestinese.
I due ragazzi erano diventati amici nel 1937 dietro i carretti di frutta fresca, ortaggi e latte d’olio ammaccate del mercato di Bab al-Amond, dove Hassan era seduto a leggere un libro di poesia araba. Il ragazzino ebreo dagli occhi grandi e il sorriso timido si era avvicinato a Hassan. Zoppicava, il lascito di una gamba curata male e della camicia bruna nazista che gliel’aveva rotta. Aveva comprato un grosso pomodoro maturo, l’aveva tagliato con un coltellino e ne aveva offerto metà a Hassan.
“Ana ismi Ari. Ari Perlstein” aveva detto.
Incuriosito, Hassan aveva preso il pomodoro.
“Goo day sa! Shalom!” Hassan aveva azzardato le uniche parole non arabe che conosceva e fatto segno al ragazzino di sedersi.
Anche se Ari sapeva improvvisare qualcosa in arabo, nessuno dei due parlava bene la lingua dell’altro. Ma trovarono presto un’affinità nel loro comune senso di inadeguatezza. […]
Fu così che nacque un’amicizia all’ombra del nazismo in Europa e nel solco sempre più profondo tra arabi ed ebrei in patria, e andò consolidandosi nell’innocenza dei loro dodici anni, nella poetica solitudine dei libri e nel comune disinteresse per la politica.
Decenni dopo che la guerra ebbe separato i due amici, Hassan avrebbe raccontato alla figlia più piccola, una bimbetta di nome Amal, di quel suo amico d’infanzia. “Era come un fratello” le avrebbe detto, chiudendo un libro che gli aveva dato Ari nell’autunno della loro fanciullezza. […]”
Scrittrice e militante
Inutile dire che dietro alla scrittrice di romanzi si cela l’attivista di diritti umani, impegnata a dare visibilità alle sofferenze del popolo delle sue origini.
Sul sito Washington Report On Middle East Affairs ‘www.wrmea.org’, Susan Abulhawa scrive, nel 2009, un articolo dal titolo ‘Palestinians Will Never Forget’ (è il terzo articolo del servizio) che inizia con queste parole.
“Come può chiunque che vede Gaza bruciare sfuggire all’amara realizzazione che la storia si sta ripetendo?
Molti hanno confrontato il trattamento israeliano riservato ai palestinesi con l’apartheid in Sudafrica. Ma neppure nella sua ora più crudele il regime dell’apartheid ha provocato un omicidio e una distruzione così sfrenati. Smettiamo di sminuzzare le parole. Quello che sta succedendo ai palestinesi ora sussurra a Varsavia e Lodz. […]”
Quello dell’autrice di Ogni mattina a Jenin è un appello accorato rivolto al sonnolento cittadino occidentale che tappa il proprio orecchio per non udire e quindi fingere di non sapere.
Poche parole ancora ma pesanti come pietre.
“Proprio come i nazisti concedevano agli ebrei solo il diritto di morire in silenzio, Israele assedia e affama i palestinesi, concedendo unicamente anche ad essi lo stesso diritto.
Proprio come il ghetto di Varsavia fu ridotto in macerie, Gaza viene lasciata bruciare in un inferno, i suoi ospedali esplodono lasciando morte e ferite indicibili. L’intera popolazione di Gaza è terrorizzata e traumatizzata.
A nessuno viene risparmiata l’insicurezza e la paura. Immagina, per favore, di essere un abitante di Gaza.
Cosa hanno fatto i palestinesi per meritare un simile destino? Essere cacciati all’infinito come animali? Demolite le loro case? La loro storia antica e il loro patrimonio gettati nello spazio dimenticato? Per languire nei campi profughi e nelle baraccopoli, mentre gli ebrei da ogni angolo della terra si accalcano per riempire le loro case e fattorie confiscate?
Per venire torturati, imprigionati ….?”
Libro duro ma necessario
Ho inserito il link dell’articolo (purtroppo solo in inglese) e spero che molti di voi abbiano la tentazione di leggere il libro.
Si tratta di un libro-verità scomodo, talvolta sgradevole, mai accomodante. Ma le persone di cui si parla, magari con nomi fittizi, sono persone vere come lo siamo ciascuno di noi.
Le storie umane che il libro racconta sono attualissime!
Permettetemi di chiudere con le parole che sono riportate nella quarta di copertina del libro. Non è indicato l’autore.
“La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza fa piangere le pietre.’
Solo dopo aver letto il romanzo ho compreso quanto questa affermazione fosse appropriata! Grazie!
Per chi desidera approfondire od acquistare
- Ogni mattina a Jenin (2011) – Il libro di oggi
- Nel blu tra il cielo e il mare (2015) – Il secondo romanzo di Susan Abulhawa
- Video ‘Susan Abulhawa – Ogni mattina a Jenin’ L’autrice riassume la genesi del suo romanzo (sottotitoli in italiano)
- Video ‘Susan Abulhawa – La descrizione di Dalia’ Lettura in italiano di una pagina molto toccante del libro
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